Ad aprile festeggeremo il trentesimo anniversario. Era infatti il 1 aprile 1981 quando il militare Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza veniva sciolto e dalle sue ceneri nasceva la Polizia di Stato come la conosciamo oggi, ad ordinamento civile.
Trent’anni e non sentirli, potremmo dire, quando pensiamo ai tanti episodi, piccoli e grandi, che ci confermano che, per tanti funzionari di questa amministrazione, la smilitarizzazione non è mai avvenuta.
Un esempio lampante? C’era una signora, Vice Questore Aggiunto in servizio chissà dove, convinta che l’Agente preposto ai varchi d’accesso, il quale era tenuto a controllare che entrasse solo il personale provvisto dell’apposito “badge”, fosse in realtà un usciere a cui spettava come unico compito quello di evitare che i nobiluomini e le nobildonne delle classi superiori si sporcassero le mani toccando le maniglie delle porte.
Emblematico è anche il caso di quel collega della questura di Roma che si vide comminare la deplorazione per aver smarrito... LA TESSERA DELL’AUTOBUS!
Sono casi che ripropongono, in tutta la sua drammaticità, l’urgenza di mettere mano ad un sistema disciplinare che era fuori luogo perfino quando fu elaborato -con quell’obbligo di dare del “signore” ai soli funzionari che oggi, a diciotto anni dall’abolizione dell’analogo obbligo che vigeva nelle Forze Armate, appare sempre più assurdamente anacronistico e classista- per sostituirlo con qualcosa che porti davvero i lavoratori della Polizia di Stato ad avere pari dignità col resto del mondo del lavoro, militari inclusi.
Sarà capitato almeno una volta ad ognuno di noi: “scusi, dottore?” E la risposta, spesso data con quell’aria un po’ paterna o da fratello maggiore, malgrado magari ci trovassimo davanti a qualcuno molto più giovane di noi: “Ciao, dimmi”.
È capitato forse una volta sola, ma è una pietra miliare nella storia dei rapporti di casta in Polizia: molti ricorderanno una manifestazione di immigrati stranieri che, partita da Castelnuovo di Porto, raggiunse Roma percorrendo la Flaminia. Molti ricorderanno lo schiaffo che un funzionario (in borghese, chiaramente) dette ad un poliziotto del reparto mobile (in divisa, ovviamente) davanti a tutti, manifestanti inclusi.
Che cosa è successo allo schiaffeggiatore? Ha avuto un incarico presso una prestigiosa direzione centrale e tutti possiamo immaginare che cosa sarebbe successo al poliziotto, se le parti fossero state invertite.
Ma noi non abbiamo nessuna intenzione di “sparare a zero” sugli (spesso inconsapevoli) funzionari di questa amministrazione.
Non vogliamo dare la colpa a loro se nel 2010 ancora esiste questo assurdo e ridicolo modo di concepire la gerarchia, male tanto radicato e diffuso quanto tipicamente italiano.
È una questione di mentalità, diffusa in ogni ruolo, in ogni amministrazione e che può essere la chiave di lettura con cui cercare di capire perché un poliziotto laureato, magari ultracinquantenne, trovi normale dare del dottore a qualcuno, spesso più giovane di lui, che lo chiama per nome.
Noi crediamo che non esistano caste più o meno nobili e che una Polizia costituita da un solo ruolo, anche se dal più “elitario” tra essi, non potrebbe assolvere ai propri compiti.
Noi crediamo che, ognuno all’interno delle proprie funzioni, tutti abbiano pari dignità e diritti.
Noi crediamo che, con l’aumentare degli onori, debbano aumentare anche gli oneri e che la buona gestione si fondi sull’esempio, anche in cose piccole come indossare la divisa o prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro, per mantenere quel “contatto con la base” che la mentalità della “divisione in classi” che ci contraddistingue rischia di allentare.
È interessante, in tal senso, l’esperienza maturata dalle polizie degli Stati Uniti o Gran Bretagna, in cui è possibile accedere esclusivamente al ruolo base con concorsi pubblici, mentre agli altri ruoli si accede soltanto avendo fatto esperienza nei ruoli inferiori.
Non può lasciare indifferenti notare che perfino la Santa Sede rappresenta, in un certo senso, un riuscito esempio di “carriera aperta” poiché anche l’ultimo pretino di campagna potrebbe un giorno, almeno in teoria, diventare papa.
Ma non vogliamo che questo nostro ragionamento dovesse apparire come una sterile polemica. Ci piacerebbe, invece, che potesse fungere da sprone per tutti quelli -e non sono pochi- che hanno la cultura, la sensibilità e l’aspirazione di vivere in una società più giusta a cominciare dal proprio posto di lavoro.
Cari agenti, assistenti, sovrintendenti, ispettori e funzionari di Polizia: DOBBIAMO PRETENDERE, tutti insieme, un’amministrazione più giusta ed equanime in ogni piccolo atto quotidiano.
Rendere migliore il nostro posto di lavoro dipende da tutti noi.
Trent’anni e non sentirli, potremmo dire, quando pensiamo ai tanti episodi, piccoli e grandi, che ci confermano che, per tanti funzionari di questa amministrazione, la smilitarizzazione non è mai avvenuta.
Un esempio lampante? C’era una signora, Vice Questore Aggiunto in servizio chissà dove, convinta che l’Agente preposto ai varchi d’accesso, il quale era tenuto a controllare che entrasse solo il personale provvisto dell’apposito “badge”, fosse in realtà un usciere a cui spettava come unico compito quello di evitare che i nobiluomini e le nobildonne delle classi superiori si sporcassero le mani toccando le maniglie delle porte.
Emblematico è anche il caso di quel collega della questura di Roma che si vide comminare la deplorazione per aver smarrito... LA TESSERA DELL’AUTOBUS!
Sono casi che ripropongono, in tutta la sua drammaticità, l’urgenza di mettere mano ad un sistema disciplinare che era fuori luogo perfino quando fu elaborato -con quell’obbligo di dare del “signore” ai soli funzionari che oggi, a diciotto anni dall’abolizione dell’analogo obbligo che vigeva nelle Forze Armate, appare sempre più assurdamente anacronistico e classista- per sostituirlo con qualcosa che porti davvero i lavoratori della Polizia di Stato ad avere pari dignità col resto del mondo del lavoro, militari inclusi.
Sarà capitato almeno una volta ad ognuno di noi: “scusi, dottore?” E la risposta, spesso data con quell’aria un po’ paterna o da fratello maggiore, malgrado magari ci trovassimo davanti a qualcuno molto più giovane di noi: “Ciao, dimmi”.
È capitato forse una volta sola, ma è una pietra miliare nella storia dei rapporti di casta in Polizia: molti ricorderanno una manifestazione di immigrati stranieri che, partita da Castelnuovo di Porto, raggiunse Roma percorrendo la Flaminia. Molti ricorderanno lo schiaffo che un funzionario (in borghese, chiaramente) dette ad un poliziotto del reparto mobile (in divisa, ovviamente) davanti a tutti, manifestanti inclusi.
Che cosa è successo allo schiaffeggiatore? Ha avuto un incarico presso una prestigiosa direzione centrale e tutti possiamo immaginare che cosa sarebbe successo al poliziotto, se le parti fossero state invertite.
Ma noi non abbiamo nessuna intenzione di “sparare a zero” sugli (spesso inconsapevoli) funzionari di questa amministrazione.
Non vogliamo dare la colpa a loro se nel 2010 ancora esiste questo assurdo e ridicolo modo di concepire la gerarchia, male tanto radicato e diffuso quanto tipicamente italiano.
È una questione di mentalità, diffusa in ogni ruolo, in ogni amministrazione e che può essere la chiave di lettura con cui cercare di capire perché un poliziotto laureato, magari ultracinquantenne, trovi normale dare del dottore a qualcuno, spesso più giovane di lui, che lo chiama per nome.
Noi crediamo che non esistano caste più o meno nobili e che una Polizia costituita da un solo ruolo, anche se dal più “elitario” tra essi, non potrebbe assolvere ai propri compiti.
Noi crediamo che, ognuno all’interno delle proprie funzioni, tutti abbiano pari dignità e diritti.
Noi crediamo che, con l’aumentare degli onori, debbano aumentare anche gli oneri e che la buona gestione si fondi sull’esempio, anche in cose piccole come indossare la divisa o prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro, per mantenere quel “contatto con la base” che la mentalità della “divisione in classi” che ci contraddistingue rischia di allentare.
È interessante, in tal senso, l’esperienza maturata dalle polizie degli Stati Uniti o Gran Bretagna, in cui è possibile accedere esclusivamente al ruolo base con concorsi pubblici, mentre agli altri ruoli si accede soltanto avendo fatto esperienza nei ruoli inferiori.
Non può lasciare indifferenti notare che perfino la Santa Sede rappresenta, in un certo senso, un riuscito esempio di “carriera aperta” poiché anche l’ultimo pretino di campagna potrebbe un giorno, almeno in teoria, diventare papa.
Ma non vogliamo che questo nostro ragionamento dovesse apparire come una sterile polemica. Ci piacerebbe, invece, che potesse fungere da sprone per tutti quelli -e non sono pochi- che hanno la cultura, la sensibilità e l’aspirazione di vivere in una società più giusta a cominciare dal proprio posto di lavoro.
Cari agenti, assistenti, sovrintendenti, ispettori e funzionari di Polizia: DOBBIAMO PRETENDERE, tutti insieme, un’amministrazione più giusta ed equanime in ogni piccolo atto quotidiano.
Rendere migliore il nostro posto di lavoro dipende da tutti noi.
